30 Novembre

Alcune osservazioni sulla poesia di Edoardo Sanguineti

(n. XLI – gennaio 2011)
    
   Ricordo l’immagine del Professore: agli esami a Salerno – e quando era già celebre, e la sua voce, nell’aula, perveniva viaggiando al di sopra del mare di teste, in un modo inconfondibile,  lucidissimo e sofisticato. Credo che sia stato in misura eminente questo: un grande intellettuale, tra l’altro schivo dei giochi di potere dell’università, come in politica, ma equilibrato e onestissimo, attento alla valenza etica della propria vita oltre che, per programma, a quella politica. Un intellettuale, dunque, in primo luogo, che faceva poesia – ma certamente un poeta, insieme al critico e all’intellettuale.
   In un questionario – in origine era in un numero del 2003 del “Corriere della Sera”, ma  compare anche in Mikrokosmos, la silloge delle sue poesie datata 2004 – alla domanda sulla qualità che preferiva in un uomo, egli aveva risposto che si trattava dell’intelligenza. Credo quindi che parlasse anche si sé: è da vedere, a mio parere, cosa egli intendesse.
   E risulta evidente che la cifra della sua personalità è l’intelligenza: ma una sua modalità dell’intelligenza, di tipo molto colto e quasi erudito, come ho detto sofisticato e complicato, con lampi di ironia a illuminare correndo di continuo sui testi, governata dal presupposto ideologico di stampo marxista, quello del realismo di marca lukacsiana credo, e insieme, inizialmente, dalla persuasione che bisognasse far poesia operando in un certo modo sul linguaggio e sulla sintassi – destrutturando cioè, a scapito di ogni facile compensibilità dei testi – poi, pressappoco verso i primi anni Settanta (con Reisebilder, per esempio) concedendo sempre più spazio alla comprensibilità e quindi alle esigenze di un pubblico più vasto.
   La passione allora cosa ha da fare con i freddi specchi della sua meditatissima scrittura, soprattutto nelle operazioni che hanno governato Laborintus e qualche scritto subito successivo – cosa con la cerebrale ironia? Ma è quella politica, in primo luogo: ma ognuno vive passioni e sentimenti a suo modo – per Sanguineti la passione si esprime nella esigenza di scrivere, come fece per tutta la vita, da vero poeta.
   Si veda la ricetta per preparare poesia alla poesia 49 in Postkarten (1972-77). Qui l’ironia è evidente, continua, viaggiando lo scritto, senza alcuna solennità, tra la cucina e la poesia – una poesia si confeziona in base a una ricetta per cucinare, come un piatto per l’appunto. Lo so che si rischia di essere coinvolti perché l’autore oscilla di continuo tra il così si fa epperò sembra prendere di mira qualcuno, e quindi prevarrebbe lo sta attento, perché non ci sono ricette, in realtà non si fa così, per niente: ma, in questo caso, mi sembra intelligente prestarsi al gioco, e fingere di credere che per la poesia vi siano ricette, come questa. Chissà se Sanguineti avrebbe apprezzato:
“Per fare una poesia, si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente/fresco di giornata)  ( … )/ ma, per lo stile ( … )/ si può pensare, piuttosto, al Gramsci dei Quaderni ( … ), ma/condito in una salsa un po’ piccante, di quelle che si trovano, volendo, là in cucina,/presso il giovane Marx (…)”,
e via dicendo, con riferimenti all’Artusi e al Carnacina, ma anche insieme al ricettario dell’intellectus agens di parte marxista,  Brecht  incluso, per una pagina intera.
   Evidente l’ironia dell’autoriferimento, che non prende di mira la poesia di destra, ma la propria stessa parte politica; e tuttavia alcuni passi contengono qualcosa che Sanguineti stesso, perché no, mette in pratica, proprio in quegli anni, e nei successivi, come soprattutto il prendere un piccolo fatto vero, possibilmente fresco di giornata – come è il caso della poesia 44: “Sparita la banda dei belgi (…) brutti giovinetti che saltavano per i corridoi, come i cavalli, come cavallette, di notte: che li ho spiati,/disabbigliati e ghignanti (…) ti ammetto che sono un vecchio davvero, se tutti mi aprono, incauti,/il cuore nudo; dopo le due serate delle bistecche, in bulevar Revolucije (…) è toccato ancora a Tadeusz, quando tornavamo in macchina, il 21,/di piangere (in tedesco) con me:/(perché pensano solo a farsi fottere, e niente altro (…) queste belle fanciulle dell’oggidì)”, o della successiva, la 50.
   Un poeta dell’intelletto, dunque, ma un poeta. Ma credo che vi sia una differenza  non di poco conto, nel caso di Sanguineti, tra un intellettuale che fa poesia e un poeta che fa anche della critica letteraria. Di certo abbiamo avuto nella storia della letteratura nella nostra lingua altri esempi, in cui un grado di consapevolezza  altrettanto alto non aveva portato la ratio a influire sul programma di  poesia, se non, ad esempio, per la teoria della volgar lingua; basti ricordare i nostri grandi del Trecento – sia stato o meno Dante un reazionario, come dire che l’essere filosofo politico e teorico della lingua ne abbia diminuito l’ispirazione poetica? Evidente a ognuno che non è così, per Dante.
   E per Sanguineti?  Credo che, nel suo caso, la poesia risulti anche dalla estrema consapevolezza e degli strumenti raffinati in altissimo grado, portati nella critica letteraria e nell’agone ideologico e politico. È così. Non intendo che perciò sia poesia minore: pur non essendo un critico, credo, a una semplice lettura, che i conti tornino. Ma credo che la presenza dell’intelligenza (del lavoro della mediazione cioè, a partire da quei presupposti che ho indicato) ne segni la produzione tutta, con differenze tra periodi.
    
   Certo, v’è un circolo tra poesia e “razionale” consapevolezza  critica, ma nel caso di Sanguineti quella  circolazione in alcuni casi torna sulla poesia per renderla più intensa, e allora la consapevolezza sembra cedere alla forza dell’ispirazione e del sentimento poetico. In altri casi, invece, è la poesia che appare venir meno di fronte al prevalere della ratio (forse è il caso della fondamentale raccolta Laborintus, perché Sanguineti era persuaso che si dovesse fare poesia così; ma egli ha scritto e pubblicato fino alla morte).
   Ma per quale motivo, nel caso di Sanguineti, la poesia  può apparire troppo razionale, troppo ideologica, troppo consapevole e controllata? L’ho detto – si potrebbe rispondere che la sua è una poesia di programma, che viene scritta così in base a certe analisi che sono note, per cui così bisogna scrivere; ma non sarebbe tutto, sebbene  sia in parte vero. Piuttosto mi sembra che la sua maniera di scrivere poesie sia la chiave della sua personalità e viceversa: e anche il suo modo di misurarsi con l’esterno, con il quotidiano, costituisce una circolarità condizionata dai suoi presupposti di personalità: è questo il vero circolo. Come sempre.
   Torno al ricordo di Salerno. In esame, era in grado di decentrare l’attenzione, anche se i candidati venivano esaminati dai suoi assistenti, fino a seguire di certo due esami per volta (di più, forse; ma non posso affermarlo). Dava l’impressione di concentrarsi ora questo ora quello, e anche su tutti insieme, dando alla fine un giudizio epigrammatico ma sempre molto pertinente. La mente esperta sapeva ad esempio valutare distinguendo la quantità (questi ha una preparazione più vasta) dalla qualità (costei dimostra una preparazione più puntuale). Il lumen rationis permaneva sempre vigile e acceso presso di lui, nei  modi attenuati che gli erano consueti, ma stringenti; si applicava costantemente al flusso dell’esperienza, con inesauribile curiosità si direbbe, ma trattando l’esperienza secondo la necessità del momento. 
   Una pacata e costante lucidità la sua, dunque, che non ammetteva modalità diverse dal tono dell’intelligenza e che dava l’immagine del controllo totale dei sentimenti e della  volontà del controllo delle evenienze nei limiti del possibile, come risulta per esempio dalla relazione di Pedicini sulle difficoltà della sistemazione a Salerno (Cf. “Secondo Tempo”, XL (2010) , pp. 63-68).
   Non credo sia del tutto vero, come professava Sanguineti, che il poeta debba essere all’altezza di una lettura fedele del proprio tempo, e che il suo linguaggio debba o si trovi di necessità corrispondente all’ideologia che egli professa. Per meglio dire, ciò è sicuro, ma è ancora poco a definire la poesia. Credo invece che, nel poeta, l’uomo sempre inevitabilmente si riferisca alla propria esperienza sensibile-quotidiana, e poi ad alcune componenti che non variano tanto rapidamente ma nella durata medio-lunga. Io comprendo e ragiono, in certa misura, o mi emoziono, in certa misura, come l’uomo di due o tremila anni fa, nonostante l’abisso – e l’irrealtà misteriosa – del tempo: se così non fosse, non potrei comprendere e tanto meno provare emozioni alla lettura dei poemi omerici; e la questione della comprensione storica dei fenomeni culturali certamente è ben posta, solo che la collocazione storica del fenomeno non è certamente tutto, anzi, da qualche punto di vista, può corrispondere a una neutralizzazione del fatto culturale e della storia dei suoi effetti su di me, allo stesso modo che si restaurano e s’illuminano la notte, isolandoli   dal contesto e rendendoli irreali in qualche misura, i monumenti, le chiese e i castelli.
   Credo che anche l’ideologia, senza dubbio, sia presente nel mentale e nella lingua del poeta, e quindi che influisca sulla poesia che si fa, in modo molto consapevole oppure molto lontano e come da più o meno remoti specchi; e che più immediatamente, sulla poesia che si fa, influiscano il carattere e i sentimenti, e le vicende quotidiane.  Ma a volte, come all’inizio della sua poesia, la diagnosi per cui che la nostra società mistifica la cultura, riducendola al circolo vizioso mercato-museo, era troppo vicina alla prognosi, per cui la poesia deve denunciare in modo  evidente questa contraddizione nel suo linguaggio; e la poesia così si faceva teoria, ma con poca mediazione rispetto alla teoria – e molta distanza rispetto alla poesia, forse, e certamente rispetto alla quotidianità.
   Sono gli anni del Laborintus, per eccellenza; ma resta, anche in questa accezione, che in qualche modo la poesia debba essere realistica, e, in primo piano, resta il nesso poesia-verità come esigenza, nel senso che a tale nesso conferiva il marxismo di Sanguineti; il modo di presentare il nesso alla verità consiste in generale in  questo, che la poesia si faccia specchio e denuncia. Che il suo lavoro sia il Laborintus, il primo comunque o il suo ultimo, resta che il poeta è comunque dentro le cose del suo tempo, in generale, e in singolare, nel suo caso, da marxista convinto. L’ironia, che per definizione è il risultato di un processo di mediazione sulle cose, e che Sanguineti usò di continuo,  sta a confermare la predominanza che ebbe in lui la riflessione, la distanza dalle cose, sulle cose, dall’altezza dalla quale egli guardava e da cui faceva il labor- intus della parola. 
   L’opera prima di Sanguineti, a giudizio di tutti, ha preceduto di circa un decennio le avanguardie e la sperimentazione degli anni Sessanta: dicendo come debba far poesia un intellettuale avvertito delle condizioni di questo tempo, in cui si trova a scrivere. Tempo di mistificazione borghese, di falsi idoli. La poesia si fa allora strumento di lotta e di contestazione, rivelando la mistificazione nella società con la rinuncia al lirismo, con l’ironia, il ricorso a moduli della psicoanalisi, dell’assurdo, del surrealismo.
   La sua era ovviamente una opinione sulla poesia, ma tale opinione si presentava in modo così autorevole, suffragata dall’ermeneutica marxista e dal prestigio intellettuale e morale dell’ autore –   che sembrò aprire gli occhi e ispirare le successive esperienze, come Il Verri e soprattutto l’antologia I Novissimi (1961) e il Gruppo῾ 63 per una visione diversa della realtà della società del tempo e del ruolo della poesia. Sembrò, anche grazie all’influenza di Sanguineti, determinante in un certo periodo, che si verificasse quel che aveva sostenuto Gramsci circa la eventualità di una egemonia della cultura marxista, del controllo intellettuale della società,  che preludesse alla effettiva presa del potere da parte di quel partito.   
   Dava l’impressione di  una gran potenza di mediazione rispetto alle cose, come fosse egli un saggio di qualche religione lontana dalla nostra e da noi, dal nostro comune modo di essere e di sentire; ma ostinato, come egli si definisce, e presente alle cose stesse, in riferimento costante alla nostra società e al nostro modo di essere, per denunciarlo come alienato, in vista dello smascheramento.        
   Dopo Laborintus, e in particolare a partire dagli scritti dei primi anni Settanta con Reisebilder, Sanguineti, in modo diverso, come ho accennato, ma sempre del resto conforme all’ipotesi del realismo, si andò orientando in altro modo alla quotidianità e al diario,   cercando la denuncia non più nella forma della destrutturazione della sintassi e della lingua, quanto attraverso moduli più accessibili, con un risultato di maggior comunicatività della poesia. Lo testimonia la lettura della sua silloge-resoconto del 2004, Mikrokosmos.
   Pur conservando l’ironia, la poesia deve convergere verso la vita quotidiana, anziché occuparsi soltanto, in modo provocatorio, del linguaggio.
   Si potrebbe sostenere che l’intellettuale marxista, all’inizio, non aveva compiuto una operazione organica, ovvero di connessione alle masse, se si deve dar credito alla universale lamentela sulla difficoltà di accedere alla comprensione dei suoi testi, ma in particolare il primo. Tuttavia un accostamento mi sembra rivelante.
   Sanguineti lavorò anche con Luciano Berio: in questa specie di solitudine dovuta ai livelli a cui volava, era in buona compagnia. Ricordo che una volta a Roma – era il 1973 o il 1974 – furono eseguiti brani musicali di Berio nella manifestazione culturale al Palasport e il pubblico (di sinistra) restò indifferente e anzi cominciò a rumoreggiare e a disturbare durante l’esecuzione di un pezzo musicale del compositore. Un pezzo difficile, cioè sintatticamente incomprensibile per orecchie aduse alla melodia e al ritmo più  facili. Allora Berio intervenne con una sfuriata, gridando ai compagni che l’arte di sinistra doveva essere all’avanguardia, e che la lotta proletaria si vinceva anche così, non regalando alla cultura di destra l’egemonia: in ciò consisteva la missione dell’artista e del partito, e il proletariato doveva essere, per questa via, portatore di vera cultura, e non seguace dell’arte consumistica, di una musica vacua e inconsistente, ancorché gradevole e abbordabile.  E qui fu chiarissimo e venne compreso bene, e riscosse  i suoi applausi. 
   Forse che l’artista, di sinistra o no, non trovava comunque gli argomenti per giustificare la propria arte? 
   Che Sanguineti non abbia voluto mai voltare le spalle alla necessità, da lui certo avvertita come etica, di vivere la vita quotidiana, lo dimostrano il matrimonio e i figli. Credo abbia ragione chi vede nell’interesse per la poetica di Gozzano una manifestazione di questa propensione di Sanguineti, sebbene le sue attenzioni critico-ideologiche non si esauriscano certo in Gozzano, com’è noto: e Lucini, allora? Peraltro egli ha dovuto ricorrere a una serie di espedienti per poter affrontare con il  necessario impegno i compiti che la sua grande figura gli portava necessariamente sul cammino, come l’università e poi la politica attiva in Parlamento. 
   Non si sottrasse, in modo coerente – c’è sempre bisogno di realtà, e nelle sue poesie traluce il riflesso d’una sovrabbondanza di esperienza. Direi anzi che la sua poesia, senza mai dismettere la cifra intellettualistica e ironica, resti nondimeno corposa di momenti e immagini, pur mediatissimi e come decontestualizzati per venir ricuciti in altro con-textus, quello dell’elaborazione del poeta – i quali possono solo provenirgli dalla velocità, dalla fluidità e varietà della sua esperienza; l’evoluzione diaristica del suo plus d’esperienza vissuta è consistita alfine in questo, nella sua poesia.
   Certo: ma, almeno a mio avviso, insisto sul fatto che in ogni poesia, sia essa di Sanguineti o meno, in modo più o meno mediato, c’è la componente diaristica e storica. Deve: perché il poeta è un uomo concreto, in carne e ossa, e fa esperienza, come ogni uomo vivente.
   Solo che in Dante questa componente è evidente, qualunque lettura se ne faccia, mentre in D’Annunzio si manifesta all’insegna del simbolo, per cui le cose si presentano, e i fatti vengono vissuti, a partire da un fondo leggibile nella poesia, ma lambito dal mare dell’oscurità: in modo del tutto insincero, secondo la lettura che ne dà Sanguineti, e quindi del tutto riprovevole dal punto di vista etico e politico: la poesia di D’Annunzio  si dissocia dalla verità e il riferimento costante di questi a Nietzsche appare a Sanguineti privato “d’ogni autenticità morale” (Poesia italiana del Novecento, Torino 19712, p. 67); per giunta  non solo in D’Annunzio è vero, come per Sanguineti, ma in modo del tutto diverso, che la letteratura deve farsi vita, ma è anche vero   l’opposto, cosa che non avrebbe sottoscritto Sanguineti – e cioè che la vita debba farsi letteratura. In tal senso Sanguineti bolla come antirealismo l’arte di D’Annunzio (Introduzione a Poesia Italiana del Novecento, cit. p. LXVII).
   Lo stesso Sanguineti, tuttavia, nella citata Introduzione, ripensando la poesia italiana  a partire da Pascoli e D’Annunzio, non può fare a meno di riconoscere a  quest’ultimo momenti di autenticità.
Quindi D’Annunzio è solo un poeta diverso, ma sempre un poeta, nonostante i problemi etici e politici che Sanguineti gli  solleva contro. L’ideologia di D’Annunzio vale nella sua scrittura, ma sempre meno del suo temperamento e della sua personalità, che influiscono in modo decisivo sulle cose che egli scrive e sulla modalità della sua scrittura: l’estetismo, l’ossessione della bellezza e del raffinato gusto (Sanguineti, cit.,  p. XXXV). 
   Sanguineti invece è altra persona, mi si perdoni l’apparente tautologia, che però non vuole essere tale: perché in genere ritengo vero che nel teatro della personalità di un autore ombre e luci si riflettono e muovono sempre diversamente, e così il razionale Sanguineti poteva fruire dell’ironia e di una diversa tecnica di analisi del linguaggio, laddove il lucido ma appassionato D’Annunzio ne restava lontanissimo, sempre  per programma. In fondo si tratta del concetto husserliano di intentio: l’apriori  nella versione di Husserl è come individualizzato – ogni individuo, a maggior ragione ogni poeta, intenziona il mondo in una maniera forte ma sua, diversa in modo quasi irriducibile ad ogni altro. La intentio può avere a che fare con l’ideologia, ma è comunque un altro mondo, un altro modo di considerare le cose, e lo si può applicare tanto a Sanguineti quanto a D’Annunzio, lasciando impregiudicata – almeno da questo punto di vista – la questione dell’autentico e dell’ inautentico.
   Che il vero poeta infine approdi a esiti piuttosto simili ad altri, si può vedere dall’ improponibile esempio che propongo.
   Si veda il Sanguineti diaristico – abbiamo detto, anni settanta in poi – in una pagina qualsiasi: “TEMA:/sei diventato un nonno (…)/SVOLGIMENTO:/quando l’ho vista, il 9 pomeriggio, la prima volta,/dormiva tutta, a pancia molle, giù (con le solite braccia mezze tese, i mezzi/pugni chiusi (…) ho presenziato così,/(con i miei occhi sereni, illesi, al mio/trapianto dei miei occhi medesimi, infilati con delicata pazienza, al primo colpo,/dentro un’ereditaria micro faccia eterosessuale (…)” (n. 19 in Rebus, 1984-1987); e la 25 di Cose (1996-2001): “l’imperativo categorico dice:/mangiare, bere, e, soprattutto, fottere:/ (fottere il più possibile, per certo) (e al meglio, se ci riesci, se ci puoi);/io ci ho speso una vita, a farti questo): (e adesso me lo so, l’ho spesa bene);/dilettissima complice, mia sposa: sono un gatto lupesco, e laido, e lieto:”.
   Si veda, invece, un brano di Carver, a caso: “Gli ho detto: «Secondo te, che ti succede?/Stai perdendo la testa. E poi/morirai. O viceversa./E i dolci? Hai un debole anche tu/per le brioche alla cannella e per il gelato?»/«In più, ci vado proprio matto», ha detto lui./A quel punto eravamo in un locale chiamato Friendly’s./Scorremmo i menù e continuammo a parlare./Da una radio in cucina veniva/musica da tavola. Era la nostra musica, capite./Era la nostra tavola.” (In più, in Orientarsi con le stelle, tr. it. Minimum Fax, Roma 2006). E quest’altro, cercato: “Rivedo il bambino./Dopo sei mesi che non l’ho/ più visto. Ha la faccia/più larga dell’ultima volta./Più pesante. Quasi rude./Somiglia di più al padre, ora./Priva di gioia (…) C’è qualcosa di duro,/addirittura di crudele, nella presa/della sua manina./Lo lascio andare./Le scarpette stropicciano/l’una sull’altra mentre va  verso la porta (…)” (Il bambino, in Orientarsi con le stelle, cit.).
   Si potrebbe dire veramente molto sulla differenza tra le poesie di Carver e quelle di Sanguineti, d’accordo. Differenze così evidenti. Abissali. Incommensurabili, come le esperienze che si fanno. 
   Eppure anche Carver potrebbe condividere, a suo modo, le parole di Sanguineti: “posso caratterizzarlo in questo modo, il mio programma (il mio problema): e dire/(…):/fare/dell’esperienza un’esperienza (…)” ( 44, in Scartabello, 1980). 
   Pertanto, anche, nessuna differenza. La discriminante è il modo di intenzionare l’esperienza. Il mondo comune è l’esperienza. Sono poeti, fanno poesia.
 
   So che lo stesso titolo Laborintus – che poi corrisponde a un corpo poetico di grande elaborazione –  è stato visto come una specie di enigma: si tratta di ciò che Sanguineti voleva, come egli dice pure in alcuni passaggi della prefazione ai Novissimi (contro il linguaggio contemplativo; per una “riduzione dell’io” e una versificazione che tratti “la lingua comune con le stesse intensità come se fosse la lingua poetica” (1961),  e ribadisce Nazzaro – “la poesia  è una sconvolgente lacerazione del linguaggio codificato (…) fino al dissanguamento del senso” (“Secondo Tempo”, cit., p.  59); oppure, fin dal titolo stesso, di un beffardo,  junghiano  ritorno del rimosso? 
    Non mi pare corretto giudicare oggi, dal punto di vista della riuscita, gli sforzi di grande elaborazione culturale, come quelli di Sanguineti ma anche di Berio e degli altri. Essi restano qui, come esemplari tentativi di educazione al gusto e al bello, senza per questo divenire come strizzate d’occhio al facile. Restano esemplari nella storia della nostra cultura. Sono imprese riuscite: hanno trovato impatto sul tempo e hanno fatto strada ad altre esperienze.
   Un ultimo ricordo del Professore. Quella sera in cui, nell’aula vicino al fiume a Salerno, egli teneva la lezione su Lucini, la voce non mutava di tonalità, restava sempre uguale a se stessa, elaborando un commento, un tessuto di incomparabile chiarezza e pregio. Quando qualche studente, un po’ forse per esibizione, protestò che la voce non si sentiva, il maestro si limitò a invitare, sempre restando nello stesso registro di voce, a evitare di disturbare: in questo modo quanto egli diceva sarebbe stato senz’altro percettibile. L’aula era stipata all’inverosimile, anche i curiosi e i bidelli dell’università venivano ad ascoltarlo, ma si fece un grande silenzio, ed egli poté finire la lezione.
   Momenti quasi leggendari. Questa “pacatezza atona e quasi insonora” (Nazzaro, “Secondo Tempo” cit.,  p. 60) è la cifra della sua poesia e della sua personalità. Ha certo  sue ragioni Fortini, in una intervista (“Corriere della Sera”, 1/4/1993), a dire che era errata “la convinzione che mettendo la dinamite nella sintassi si mette la dinamite nella società. È ridicolo pensare che la rivoluzione si possa fare attraverso la letteratura”.  Non so quanto Fortini avesse motivi personali verso Sanguineti: l’ho conosciuto, negli ultimi suoi anni, e mi è parso piuttosto sereno, ancorché, come sempre, impegnato. Ma non è questo il punto.  È che ci sono azioni e imprese che non si misurano solo dalla riuscita ma anche dagli effetti sul proprio tempo e dalla purezza dell’intenzione.

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