30 Settembre

Onore, Dignità, Rispetto: parole pesanti tra etica, antropologia ed esistenza

Onore sta, fin dai testi antichi (Aristotele, p. e., Et. Nic., VIII, 14, 1163b3), ma anche secondo gli autori moderni (Hobbes, Spinoza), per l’attestazione di valore che ci viene attribuita dagli altri. Molti hanno fondato la propria vita sul sentimento dell’onore.
  Serve forse appena precisare che l’onore, nel contesto aristotelico, non è una virtù ma una passione, o, nei miei termini, sentimento: ovvero pertiene, si direbbe oggi, alla sfera delle passioni – mentre la virtù che vi corrisponde è, in Aristotele, la magnanimità (Et. Nic., II, 7, 1107b20). 
   Se si accetta il passaggio, certamente esposto in modo un po’ sommario, dalla nozione aristotelica della passione alla contemporanea accezione di sfera (mentale) della passioni oemozioni-sentimenti, sembra che il rilievo di partenza diriga una possibile discussione. Infatti, occorre coltivare non tanto, allora, il sentimento dell’onore, quanto la virtù della magnanimità, che a quello corrisponde, e che, come ogni virtù, è medio o giusto mezzo tra l’ambizione o la superbia (l’eccesso) e la piccineria d’animo (il difetto).
   Ma la mia discussione attuale verte proprio sull’onore, per cominciare. Il concetto di onore viene guardato con qualche sospetto dagli autori di etica, perché l’onore vien fatto dipendere fin troppo dagli altri: tant’è vero che non solo tale passione, o sentimento, ha generato conflitti e guerre in ogni epoca e luogo, ma anche sembra poter collegarsi al conformismo: ma non, si badi bene, perché in quanto onorevoli siamo come gli altri, ma perché, non avendo o almeno non mostrando qualcosa di biasimevole o di eccentrico o ridicolo, siamo come loro o anche siamo più degli altri in qualcosa, che venga considerato grande e  degno di stima (l’eroe o il condottiero fortunato vengono considerati onorevoli al di sopra degli altri).  
    Oggi i termini etici si confondono e quindi di eroi ce ne sono troppo pochi, oppure troppi; dunque all’onore si è sostituita la rispettabilità, sicché si dice di preferenza non che si è onorevoli (quelli infatti si trovano in Parlamento) ma che si è rispettabili, e così sembra che le cose siano più pacifiche, e ben sistemate, senza correre eccessivi rischi. Il buon padre, la buona madre di famiglia, sono rispettabili; il fedifrago non lo è, sembra; preferisco, personalmente, essere ritenuto degno di fede in alcuni campi – come il rispetto della parola data, per esempio, e la restituzione degli oggetti presi in prestito. Quanto al resto, non vado troppo oltre: forse non è per me.
   Solo un piccolo inciso, per dire che sembra anche interessante chiamare in causa il termine reputazione, a proposito dell’onore e della rispettabilità, perché questo sembra largamente convergente con quelli, salvo il fatto che, forse, l’uso del termine, in particolare proposto nell’ambito della sociologia della devianza, mostra alcuni risvolti. Il deviante, cioè, si attribuirebbe – anche perché glielo attribuiscono gli altri – un valore alla rovescia: il deviante ha un grande valore per il proprio gruppo, che è quello dei devianti, mentre, com’è ovvio dallo stesso termine, viene considerato spregevole dalla maggior parte, dal senso comune, rispetto al quale egli tende a fondare un senso comune della minor parte.
   Di conseguenza, alla mente del deviante e del suo gruppo, la pessima reputazione in cui viene tenuto dalla maggioranza costituisce un titolo di merito, un’attestazione di ottima reputazione, alla rovescia.
   Che alcuni devianti siano poi stati riabilitati, o che le circostanze della vita abbiamo  determinato una loro riacquisizione alla maggioranza, è un dato; e comunque, basti pensare alla definizione, per cui un grand’uomo è quello che sa tramutare i suoi peggiori difetti in altrettante virtù, per poter leggere con il necessario disincanto, quello dell’attuale relativismo etico, l’etica classica.

   Non è per dire; anzi dal titolo stesso si può comprendere come io stia parlando dei casi della vita, e di quanto le parole pesanti che ci portiamo dentro, nella misura in cui corrispondono a passioni e sentimenti,  influiscano sull’esistenza.

   Dalle brevi considerazioni esposte sulla reputazione consegue che, se tale ambito semantico coincide in buona parte con quello dell’onore, allora l’onore, proprio come la reputazione, diventa qualcosa di molto relativo, perché appunto dipende dagli altri e dal con-formarsi alla forma etica di un gruppo. Che poi possano esservi forme etiche migliori o peggiori, invece che forti o deboli, e dominanti o subordinate, questo è molto improbabile: vi sono – ma nel pensiero. La stessa vittoria delle democrazie occidentali sul nazismo è dipesa dalla proporzione delle forze in campo e dal dispiegamento dei mezzi, e non dal fatto – continuamente smentito dalle apparenze storiche – che il bene trionfi sempre sul male. Un fatto che non c’è, smentito tra l’altro da incalcolabili vittime innocenti; semmai si può parlare, con Agostino, della lotta tra le due città, fino alla fine del tempo. Questo mi sembra più sensato: basta guardare le cronache.
   Avendo la fortuna di ricevere, insieme a  un’anima ribelle e poco conformista, anche inclinazioni all’autocorrezione e alla prudenza, come doti favorevoli all’autoconservazione, si può rimediare da sé; ma i veri devianti si bruciano – sembra –  anche per il gusto della provocazione – perché, per conseguire l’aura nera, cioè la reputazione ricercata, sembra loro opportuna una certa dose di ostentazione della devianza, di cui notevoli componenti di provocazione e di esibizione possono far parte.
   Ma un modo comune di sentire e di agire non c’è; e ogni uomo è diverso, nel senso che ogni singolo termine influente sulla sua anima può essere diverso dal significato influente di quello stesso termine, nell’anima di un altro. Di fronte a tale sterminata diversità di   intenzione del mondo, ormai venuta in piena consapevolezza degli uomini e dell’etica, la regola del bene prescrive di agire nella dimensione pubblica e privata per il meglio dell’umanità, a partire da sé e dai prossimi; e, se qualcosa di sé può sembrare agli altri sconveniente o ridicolo, la regola della prudenza consiglia di dissimulare – di nascondere ciò che in sé non è male né bene – ma, per esempio, è piacevole, ma pubblicamente disdicevole o indecoroso, come la preferenza sessuale dell’individuo, il sesso con le sue infinite variazioni, da praticare senza dubbio, purché non sia cattivo, pernicioso a sé o agli altri. Si è peraltro padroni di ostentare ciò che in sé non è male; sapendo che l’esibizione avrà il suo prezzo, perché l’occhio degli altri è pronto e spesso poco benevolo. Credo che qui l’onore non sia tanto in discussione, quanto  il desiderio di convivere pacificamente, fin dove è possibile, con gli altri.

   Dignità è un altro grande termine, pesante nelle coscienze e nelle esistenze, avvalorato certamente dalla formulazione kantiana del secondo imperativo categorico: nelle proprie azioni considerare l’umanità, nella propria come nell’altrui persona, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo. (Fond. di una met. dei costumi, II). Come viene spiegato, l’etica kantiana tende alla costituzione di un regno dei fini: l’uomo è un fine, dunque ogni uomo è di per sé degno. In ciò soprattutto consiste la sua dignità. 
   Una volta stabilita tale sua degnità o valore, non per gli altri ma in sé, o per gli altri perché in sé, nulla potrà intervenire a toglierla: in un famoso passo, Kant osserva che, quand’anche tutte le forze infinite della natura dovessero scatenarsi e sommergere e annientare l’uomo, questo resterebbe in sé superiore alla potenza della natura, perché appunto essere morale  e libero.
   Ovviamente il senso del termine appare molto più antico; e tutto il Rinascimento sembra pervaso di questa nozione.
   L’apprezzabilissima prudenza di Kant, signore delle definizioni e dei limiti, lo porta a precisare che l’uomo come fine è soltanto un fatto noumenico: a questo bisogna cioè tendere, ovvero ci si comporta come se l’uomo sia un fine, ma l’evidenza del mondo fenomenico ed esperienziale non ci offre in modo molto problematico che la dignità dell’uomo sia un dato.
   Sempre per restare all’esempio del nazismo, si veda a cosa porta la negazione della pari dignità degli uomini: alla teoria dei superiori e degli inferiori, dei padroni e degli schiavi per natura.
   
   L’onore coincide con la dignità?
   La risposta che propongo è: solo a certe condizioni, e cioè a condizione che ciò che siamo a noi stessi coincida con ciò che siamo per gli altri, rispetto a ciò che veramente è importante.
   Ma cosa è l’importante?
   Risponderei: il sentito, l’avvertito nell’anima. Cioè nella mente.
   Un modo di pensare quanto mai moderno e contemporaneo, in questo senso, può venirci dai Vangeli.
   Un messaggio anticonformista serpeggia 8 o forse campeggia?) in tutto il Nuovo Testamento. La persona di Cristo è quella di un uomo che non rispetta la regola della prudenza e sa che il mondo gli chiederà un prezzo. Egli è disposto, infine, a pagare.
   Maria di Betania, reputata sorella di Lazzaro e di Marta,  non è propriamente una donna degna di onore, ma, davanti a Dio, ha dignità, benché sia tenuta per prostituta: perché nell’intimo lo scrutatore dei cuori legge la sua verità –  la donna ha fede e ha mostrato amore, l'innominata peccatrice "cui molto è stato perdonato perché molto ha amato" (Lc. 7, 36-50).
   In questo stesso contesto, il fariseo presente afferma che se Cristo fosse un profeta, allora dovrebbe sapere che la donna è tenuta per peccatrice, intendendo che quindi non sarebbe da onorare né da tenere in alcuna considerazione; ma qui, come in ogni contesto dei Vangeli, il fariseo di buona reputazione che impersona il senso comune  in realtà è colui in cui le intenzioni non corrispondono alla esteriorità della vita, e quindi è egli stesso, alla rovescia, tenuto (dal Vangelo) per  un uomo mendace e indegno. La stessa espressione fariseo è passata alla storia come sinonimo di ipocrita e quindi indegno: indegno è colui in cui non si riscontra   corrispondenza tra ciò che egli vuol risultare per gli altri e i motivi per cui lo fa, o anche con ciò che avverte e pensa; in tal senso, egli non appare per quel che è. Vien quindi bollato come sepolcro imbiancato (Mt. 23,27-32).
   Se ne evince che il fariseo può essere ritenuto onorevole (dalla società) ma non è dignitoso, e che Maria di Betania viene riconosciuta (secondo il Vangelo) portatrice di una dignità – la dignità di chi ha molto amato – e tuttavia non è affatto onorevole, almeno agli occhi dei più.
   Si potrebbe obiettare: ma agli occhi di Cristo  la donna è dignitosa e onorevole, mentre il fariseo non è l’uno né l’altro. 
   Allora bisognerebbe rispondere che, però, nella società umana, come descrivono anche i Vangeli, le cose vanno ben diversamente, e che la vera corrispondenza dell’onore alla dignità va rinviata sine die alla realizzazione di un regno dei fini, appunto, o del regno di Dio dei Vangeli.
   L’onore dunque non sempre coincide con la dignità e si può essere onorevoli, nel mondo degli uomini, senza essere dignitosi; e peraltro si può essere dignitosi senza risultare onorevoli; e questo mondo tuttavia è l’unico che risulta. L’esempio è lampante.
   Si adotti un altro esempio, questa volta, dalla letteratura universale: quello di Anna Karenina.
Il personaggio è noto. Anna Karenina paga con il suicidio la sua decisione di seguire, in quanto donna che ama, la propria passione d’amore per un uomo che finisce egli stesso, nell’evoluzione dei sentimenti reciproci,  per non amarla.

   Se, per Kant, si dice cosa significa per l’uomo considerare l’altro come degno, e con ciò si dice qualcosa, più riguardo al rispetto, che alla dignità in sé; la dignità in sé cosa sarà allora?
   Propongo, precisando quanto detto sopra,  che per dignitoso s’intenda chi nelle azioni segue i propri sentimenti, che sono la parte spontanea, autentica dell’essere umano. In tal modo infatti egli rispetta se stesso e la propria autentica natura, non tanto quella razionale (ma anche: difatti questa rientra nella struttura delle passioni) quanto quella della struttura emotiva, che è la mente stessa del singolo.
   Risulta allora chiaro perché Anna Karenina – proprio come vuole il suo creatore, Tolstoij – è dignitosa fino a risultare un’eroina, benché agli occhi del  mondo, del marito e di quelli come lui non sia onorevole.
   Ma allora anche il serial killer, dal momento che segue i propri sentimenti, è dignitoso? Come si vede, la discussione si complica, e necessita di un supplemento.
   Si deve cioè distinguere tra la salute mentale, della quale ci auguriamo che tutti gli uomini godano, e la malattia mentale.
   E definire: dignitoso l’uomo che, a parità di altre condizioni, segue le proprie passioni (che uso come sinonimo di sentimenti, qui, in genere).
   Se, invece, qualche altra condizione, come quella della salute mentale, varia e vien meno, allora o noi decidiamo che l’uomo è in generale e a priori dignitoso, e allora anche il serial killer lo sarà; oppure diciamo che l’uomo dalla mente sconvolta non può essere dignitoso. Poiché tuttavia questa seconda conclusione non si suole o non si deve trarre, allora si dovrà dire che l’uomo malato o deviato di mente (benché lucidissimo e di grande intelligenza: è noto), benché vada considerato sempre dignitoso (qui l’onore non c’entra affatto,  non sembra un termine pertinente), o va curato (e questo anzi rientra nel fatto che gli si riconosce dignità); oppure, in proporzione alla sua pericolosità, se è impossibile curarlo, va combattuto con tutti i mezzi, ed è quel che fa la società, perché un uomo del genere mette in questione la sopravvivenza degli altri e il mio primo dovere, come uomo e come cittadino, di fronte a un pericolo del genere, consiste nel salvaguardare con ogni mezzo la mia vita e quelle dei miei prossimi,  e dei simili, se le vite vengono minacciate.
   Credo di aver mostrato come si mettano in gioco, tra di loro, ma soprattutto  nei fatti e in esistenza, parole pesanti come onore e dignità dell’uomo. Innumerevole in passato il numero dei morti per ragioni d’onore; ma forse viviamo in una società senza onore, visto che la morale individuale è molto mutata, attenuata, frammentata? E non era ora che ciò avvenisse? Eppure in larghe frange della società sopravvive il sentimento dell’onore; o del suo sostituto, meno forte ma sentito, la rispettabilità. Ho visto donne, in particolare, soffrire fino a rischiare di perdere il lume della ragione perché qualcuno, in modo subdolo e maligno, ne aveva posto in dubbio la rispettabilità. E di quale società parliamo? Quella occidentale o quella giapponese o islamica? E quali fasce delle società occidentali, quella dei ventenni per esempio o quella delle donne impegnate con una famiglia, figli e marito? 
   E cosa dire della dignità, nel momento in cui forse decine di guerre ardono sul pianeta, e i diritti degli uomini e delle donne, dei bambini e degli anziani, sembrano una enunciazione di accademici ignari dei fatti e superficiali,  di fronte alla crudezza bestiale (feroce: umana – o non umana? Non so) di ciò che in ogni istante accade? Quale dignità ha la donna, quale l’uomo, anche nei paesi come il nostro, dove quasi ogni giorno, nei mesi caldi soprattutto, si sente parlare di uomini che uccidono donne per motivi diversi? 
   Tutto è molto diversificato; ma la filosofia non è ancora sociologia e i limiti di questo saggio sono ristretti in proporzione inversa dell’ampiezza dei temi che esso si trova ad attraversare. Non resta che parlarne, sperando di parlare correttamente in questi limiti e nell’ampiezza dovuta, senza tuttavia tralasciare, appunto, l’essenziale. 
   Il discorso del rispetto come si può trattare, rispetto (si perdoni il bisticcio) a quelli dell’onore e della dignità?
   Potrei metterli forse in dialettica; e non v’è dubbio che, volendo, si trovi sempre un medio che faccia interagire i concetti nel modo desiderato. Sia pure per opporli. Potrei farne la storia, o, come piace dire ad alcuni, storicizzarli: ma non lo desidero, e non è il mio metodo, per me non significa molto. Preferisco invece mostrare come i termini siano in parte coestensivi dal punto di vista semantico, ovvero come in parte coincidano, in parte no, in parte si completino. E soprattutto, come siano influenti.
   Rispetto, infine – tema che compare come tale, pare,  a partire da Democrito – viene tributato da altri e in ciò sembra coincida con l’onore; viene riconosciuto, si dice, da me a me stesso, e qui non coincide affatto con l’onore, ma forse somiglia alla dignità.
   

   Si direbbe, difatti,  che, come colui che è dignitoso mantiene fermi i propri sentimenti rispetto alle proprie azioni, e viceversa, anche se vi sono momenti in cui si può fingere e nascondere – per l’intervenire di altre variabili dell’azione; così colui che è rispettoso di sé si tiene sempre, salvo giustificate eccezioni, uguale a sé (il che non vuol dire affatto che sia coerente, deprecabile termine che interviene spesso a sproposito – ma questo della pretesa coerenza è un tema che meriterebbe altro discorso). 
   Si dice che chi rispetta se stesso merita il rispetto degli altri, ma qui il discorso ripete quello del rapporto tra onore e dignità – ovvero, si può rispettare se stessi ed essere rispettati dagli altri, oppure no, o rispettarsi e non venire rispettati, o sentirti tributare rispetto e tuttavia non essere rispettosi di sé.
   Non si dimentichi che i termini onore e rispetto vengono usati, se non intendo male, quasi come sinonimi nell’onorata società. Gli uomini d’onore sono anche uomini di rispetto, mi par di capire, e  viceversa. Ma in quel caso, ancora una volta, entrano in gioco i concetti di gruppo sociale e di reputazione, come già risultano sopra. 
   Se si tratta di questo, con rispetto non si aggiunge  molto a quanto già detto.
   Non voglio infatti dilungarmi sul sentimento del timore, che secondo alcuni è connesso all’onore – e al rispetto: incutere timore, secondo alcuni autori (Machiavelli docet, ma vi sono altri autori, e contemporanei, che lo sostengono) costituisce in fondo la via più breve per ottenere onore e rispetto – e in molti casi è proprio così, in ragione della sopravvivenza di culture o di elementi di culture patriarcali nella società e nelle menti degli uomini.

   Quali conclusioni? Nessuna, per quanto riguarda le prescrizioni, cioè il dire quale sarebbe l’azione preferibile.
   Difatti l’etica descrittiva non fa prescrizioni di comportamenti. Ma si limita, in questo caso,  a rilevare come esistano parole potenti e quindi passioni – cui le parole rinviano – coincidenti con l’onore, altre con la  dignità, ed entrambe le famiglie, in qualche misura, sul rispetto.
   Se veramente, come più volte ho ipotizzato, e descritto, le persone risultato fondate su questi sentimenti, allora volerle cambiare mi sembra ingenuo o folle: invece è adeguato comprendere la persona e vedere com’è, per sapere cosa può e cosa non può fare.
   Si dirà forse che i limiti e i caratteri cambiano e  si spostano?  Certo, a volte, ma non dipende dall’esterno, bensì da forti spinte interne. Gli altri non possiamo né dobbiamo cambiarli; ma rispettarli, coeteris paribus, per come sono.
   Anche di recente, persone influenti, toccate – a torto o a ragione – nella reputazione, si sono spinte fino al suicidio. Ho visto persone eccellenti vacillare, perché toccate in dignità e reputazione, quando le due cose coincidevano. O anche quando erano divergenti.
   Come non è sociologia, l’etica non è la psicologia, ma sempre si fonda su una concezione della mente, e quindi su una psicologia. Per comprendere gli uomini occorre ragionare su dati di psicologia (ma non limitandosi ad essi, in etica), quale che sia, purché funzioni, dia ragione dei fatti e altri ne possa spiegare. Non è possibile, oggi più che mai, un’etica valida per tutti, ma una descrittiva generale delle azioni umane e delle loro cause è più che mai possibile, e forse vicina, e urgente.
   Il rispetto della dignità degli altri e della propria porterà a non cercare mai di costringerli a qualcosa – posto che se ne abbia la facoltà – ma, semmai, a invitarli al cammino, quando ce lo chiedano.  
   Forse questa è una regola generale; eppure no, perché ci si sentirà sempre dire da qualcuno: – io l’avrei costretto a farlo, a fare così. E allora si potrebbe ripiegare su: ognuno è diverso, e io non sono così, non intendo costringere un altro uomo. Posto che possa.

"Secondo Tempo", 2011 (3), Marcus Edizioni, Napoli.

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