23 Febbraio

Felicità sostenibile e strategie del sentirsi felici: felicità come questione morale Angri 21 febbraio 2015

Con l’etica filosofica, gli uomini prendono in considerazione, in modo consapevole, le modalità attraverso le quali ritengono di poter vivere la vita migliore. Se l’etica filosofica è il mezzo, ovvero descrive i mezzi e le strategie, la felicità è lo scopo dell’etica filosofica. La felicità, in quanto la filosofia non sia religione o non sia ad impronta religiosa, deve intendersi in questa vita e su questa terra. Pertanto l’etica filosofica, che pretende di pensare secondo verità in autonomia rispetto alla rivelazione religiosa, consiste nel progetto, nella descrizione di una strategia per vivere bene, cioè nella progettazione della felicità in terra per gli uomini. 
Ne offro un esempio. 

Per iniziare, un paio d’immagini.
La prima consiste nella lettura di un cherem (herem), talvolta reso con “scomunica” ma più propriamente inteso con “bando” o “esclusione”: si tratta della formulazione, letta pubblicamente nel 1656, attraverso il quale veniva espulso un uomo dalla comunità ebraica di Amsterdam: “Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, con il consenso di tutta la santa comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti, escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza. Pronunciamo questo herem nel modo in cui Giosuè lo pronunciò contro Gerico. Lo malediciamo nel modo in cui Eliseo ha maledetto i ragazzi e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l'Eterno non lo perdoni mai. Che l'Eterno accenda contro quest'uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele affliggendolo con tutte le maledizioni contenute nei Libri della Legge. E quanto a voi che restate devoti all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con Spinoza alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti” (Cit. anche in A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, tr. it. Adelphi, Milano 2003, p. 301). 

Gli ebrei, come si vede, non scherzavano, ma Spinoza, di cui si parla, era assente alla lettura e aveva assistito a cose peggiori: ma si può dire che è tutto relativo, ed è comunque poco rispetto all’ auto da fé cattolico, alla tortura e al rogo: commenta il neuro scienziato Damasio che “Il male, dopo tutto, ha diverse gradazioni” (p. 299). 

Un’altra immagine: Spinoza era molto indipendente di giudizio e, sebbene a 24 anni già governasse l’azienda paterna e fosse di famiglia agiata, tuttavia si orientò agli studi e al pensiero; egli scelse di condurre esistenza molto appartata e modesta, frugale, invece che il benessere, rifiutò l’eredità e si guadagnò da vivere fino alla morte senza lusso ma guadagnando quanto gli bastava, lavorando da artigiano, come tornitore di lenti; onorato e conosciuto per la sua prodigiosa intelligenza, tuttavia rifiutò un stipendio dall’amico Simon de Vries (ne accettò poi alla morte di quello una minima parte, stupendo persino gli eredi de Vries per la sua moderazione), e una cattedra universitaria dall’elettore di Heidelberg. Era assai attento a salvare la propria autonomia intellettuale. 

Immagini della sua vita. Le esperienze del giovane o bambino Bento Spinoza, poi noto come Baruch, a partire dalla morte della madre meno che trentenne (egli aveva sei anni), passando per la presenza al massacro morale dei dissidenti ebrei e per quello efferato, bestiale dei protettori politici, i de Witt: egli fu coinvolto in terribili fatti del suo tempo. Anche dopo la sua morte, mentre egli veniva “messo alla gogna” ufficialmente, era anche “anche allo stesso tempo saccheggiato” ovvero assai letto, per via dell’influenza che ebbe sull’epoca e sul pensiero futuro (Damasio, p. 305). Per fortuna le sue opere furono “messe al sicuro in molte biblioteche private d’Europa – in barba ai divieti delle autorità politiche e religiose” (ivi, p. 303). Il secondo passo della mia ricerca è consistito nel rivedere il pensiero filosofico di Spinoza: in che modo si può dare una sintesi moto sbrigativa ma, spero, efficace della proposta contenuta nell’etica spinoziana, che è al fondamento del pensiero moderno, e pensarne la possibile connessione con quel che sappiamo della vita dell’autore? Propongo di riflettere su due punti. 

1) Nell’ Etica, Parte III, prop. 9, scolio, troviamo un chiara conseguenza della psicologia di Spinoza e quindi della sua teoria degli affetti e delle passioni:

“ … noi non tendiamo ad una cosa, vogliamo, appetiamo, desideriamo una cosa per il fatto che la riteniamo buona, ma … al contrario, giudichiamo che una cosa sia buona, perché tendiamo ad essa, la vogliamo, l’appetiamo e la desideriamo”. 

Sulla base di questa formulazione così disincantata e sommamente realistica della vita, mi domando qualche dettaglio in più sulla dottrina spinoziana. Nel suo pensiero è molto forte la presenza delle passioni, o degli affetti: della natura, cioè, non razionale (le passioni in particolare) della mente. Tuttavia è altrettanto forte la presenza dell’intelletto, che vale a trasformare le passioni, che sono inconsapevoli e ci portano all’agire subendo (patire, subire), agli affetti, che sono consapevoli emozioni e ci conducono alla vita buona e ragionevole: al punto che trovo la formulazione “Un affetto non può essere impedito né tolto, se non mediante un affetto contrario e più forte dell’affetto da impedire” (Spinoza, Etica, Parte IV, prop. 7). Ancora un passo e siamo alla psicoanalisi del XX secolo, A Freud e a Matte Blanco, alla loro teoria del rapporto tra emozioni e ragione, al loro modello della mente e delle emozioni! 

Insomma, scrive Damasio, “Spinoza intendeva combattere passioni pericolose contrapponendo loro emozioni irresistibili. La razionalità bramata da Spinoza richiedeva, come motore, l’emozione” (Alla ricerca, p. 270). 

2) Il grado più alto della vita è la scientia intuitiva, il terzo e supremo livello della vita, maggiore della conoscenza razionale, o secondo livello, e costituente con quello la conoscenza adeguata. Da essa e con essa scaturisce per noi, vi si accompagna, un singolare tipo di affetto, “l’amore intellettuale di Dio … il più alto compiacimento della mente che si possa dare … cioè … la letizia” (Ivi, Parte III, Prop. 3). Tale è dunque il fine della vita buona, o la vita buona secondo Spinoza; e tuttavia resta che “la vera conoscenza del bene e del male, in quanto vera, non può impedire nessun affetto. Ma in quanto è affetto, se è più forte dell’affetto da impedire, soltanto allora potrà impedire l’affetto” (ivi, Parte III, prop. 7). 

Ma soffermiamoci un attimo sul concetto: in che cosa consiste veramente la scientia intuitiva spinoziana? Essa è tale che quando l’uomo si trova in questa condizione, commenta Abbagnano, “rende tranquillo il suo animo … e abbandona la pretesa di essere ricompensato da Dio per la sua virtù” e inoltre “impara a fronteggiare le vicende della fortuna: giacché si convince che tutte le cose, anche quelle apparentemente mutevoli, derivano dall’essenza divina con la stessa necessità con cui dall’essenza del triangolo deriva che i suoi angoli sono uguali a due retti”. Spinoza, continua Abbagnano, suggerisce all’uomo in tal modo “un atteggiamento di tranquilla accettazione del corso delle cose, ritenuto, anche nei minimi particolari, inevitabile e necessario”. (N. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET 1982, v. II, pp. 276-7). Per un verso, in tal modo, siamo alle soglie della mistica dell’onnipotenza divina (“non si muove foglia che Dio non voglia”), ma anche della nota concezione dell’infinita concatenazione delle cause e degli effetti. Tanto più che il Dio spinoziano non è affatto qualcuno “con cui si possa parlare”, non è personale. Peraltro, riconosciamo nel suo pensiero il retaggio della grande filosofia antica e dello stoicismo in particolare: le cose cioè non dipendono da noi, ed è meglio “cercare di vincere piuttosto se stessi che la fortuna e … cambiare i propri pensieri più che l’ordine del mondo” (terza regola della morale provvisoria di Descartes: in Abbagnano., cit., p. 205). 

Tale concezione è molto diversa da quella, oggi di senso comune, per cui noi possiamo tutto, anche sovvertire l’ordine della nostra vita e quello del mondo. 

Inoltre, in modo esplicito, ho cercato di domandare alla sua vita in questo senso: cos’ha a che fare con la sua vita, tale concezione d’ un uomo così elevato che, per dire sempre con il suo biografo d’eccezione, con il suo conterraneo Damasio, “ stava levando lo sguardo sull’universo”? (Damasio, cit., p. 266). 

E così ho potuto facilmente immaginare quel giovane prodigio, alquanto ricercato nell’aspetto esteriore e nel portamento o comunque molto dignitoso, come in genere i sefarditi (ebrei portoghesi del sud) della sua comunità, cosmopoliti e mondani (ma egli no!), certamente curioso e aperto allo scambio, se è vero che nell’ultima dimora ricevette centinaia di visitatori: gentile e quasi dolce fino alla fine della vita ma sempre di “ingegno pronto e lingua tagliente” (Damasio, cit., p. 270): immagino come egli verso i 21-24 anni, una volta morto il padre, andasse in giro a discutere senza timori e liberamente le proprie idee su dio, sullo stato e sugli uomini, sulla libertà e sull’immortalità, sulla ricompensa e sulla pena; di come infastidisse precettori e intimorisse le autorità religiose, suscitando invidia, gelosia, odio; risulta che le autorità della sinagoga, prima della scomunica, non sapendo come fare con lui, gli avevano offerto uno stipendio annuo, esponendosi così al suo rifiuto e al disprezzo; egli così pose a rischio la propria vita stessa, per essere Spinoza, se è vero che scampò per caso al “pugnale di un fanatico” (Damasio, cit., p. 281), senza peraltro darsene troppa pena e conservando il mantello lacerato quasi come un segno d’onore. Quando mi domando quali esperienze, nella vita, possano aver condotto una tale intelligenza a conclusioni tanto prudenti, mi pare di vedere e di poter rispondere che, in conclusione, ognuno, anche se d’intelligenza astratta e abissale come Spinoza, parli in ultima analisi di se stesso e della propria esperienza; le sue idee, per quanto egli fosse giovane, derivavano dalla sua esperienza di vita unita alla sua grande intelligenza, al punto che Damasio può concludere “Quando scriveva degli esseri umani e delle loro debolezze, sapeva bene di che cosa parlava” (ivi, p. 293); e le sue idee erano chiarissime e sovversive in religione, in etica e in politica. Spinoza, più dotato della maggior parte di noi, come ognuno di noi, ha vissuto l’insopportabile, guardando il dolore e la caducità. La sua conclusione è, per quel che riguarda la felicità, di grande moderazione e saggezza. Spinoza era e divenne, ancor giovane, una persona di estremo equilibrio, dal momento che la filosofia può cambiare la vita, guidandola. La filosofia è sempre infine in prima persona! In fondo, anche il filosofo scrive della propria singolare maniera di vedere l’universo, che non può non aver maturato nella propria esperienza. Ma questa maniera nel caso del grande pensatore è una grande maniera, nel senso che è altamente condivisibile. Ecco: infatti la sua vita confluì nella sua filosofia alla “veneranda età di trentatré anni” (ivi,  p. 315): Damasio insiste sul fatto che egli, Spinoza, risultasse “sinceramente preoccupato per l’impatto” delle sue idee sul lettore qualunque, e insistesse “affinché i suoi testi circolassero solo in latino, in modo che solo una persona erudita potesse leggerli e confrontarsi con le idee, potenzialmente inquietanti, che essi trasmettevano” (ivi, p. 302). Egli reagì alla violenta formulazione dell’editto e all’espulsione dalla comunità ebraica di Amsterdam in modo del tutto sobrio. 

Allora si può concludere che, di fronte alla crudeltà della vita, egli, scelto il nome di Benedictus (!) dopo la cacciata e le maledizioni, pensò il suo capolavoro, l’etica: una strategia per la vita buona. 
Cosa dire ancora? Come scrive Damasio, “Lo ammiro, questo è certo. A volte mi piace immensamente … secondo i suoi stessi criteri, Spinoza fu un vittorioso”, eppure di fronte a lui “la sensazione di estraneità non si estingue mai del tutto” (p. 314). 

Abbiamo già sentito che esistono tante vie alla felicità, quanti sono gli uomini. In ciò non fu diverso il geniale Spinoza da tutti gli uomini, se non per essere Spinoza. Ma soprattutto, come vale il suo pensiero di filosofo del Seicento per noi, e dunque a quattro secoli di distanza? Dal punto di vista della capacità che hanno i grandi di precorrere i tempi, inviterei a considerare le parole di Antonio Damasio: “la domanda allora è: il fatto di sapere come funzionano emozioni e sentimenti ha una qualche importanza nel determinare il modo in cui viviamo? … Collegare questo interrogativo a Spinoza è ragionevole, … se si osserva che il concetto di natura umana che va prendendo forma sotto l’influsso della moderna biologia si sovrappone in parte a quello che lui stesso, a suo tempo, propose. Occorre dunque considerare l’approccio di Spinoza all’appagamento” (Damasio, p. 316). In tal senso Spinoza è un filosofo del nostro tempo. 

Dal punto di vista generale, invece, è per me molto significativo e indimenticabile che “la conoscenza dell’uomo libero è meditazione della vita” (Etica, Parte IV, Prop. 67).

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