Giacomo Leopardi
Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani
A cura di Vincenzo Guarracino
Ed. La nave di Teseo, Milano 2021
Guarracino ci ha regalato, per La nave di Teseo, un suo gran commento a nuova edizione dell’agile saggio leopardiano del 1824, pubblicato solo nel 1906. Il nome dell’editore richiama il riferimento mitologico, e il testo di Leopardi mostra difatti una sua complessità, costruito con il piglio del filosofo politico e dell’antropologo – Leopardi non ha mai smesso di stupire chi a lui si avvicina.
I circa 270 punti di commento realizzati dal curatore (mentre le note dell’autore sono soltanto 18) si presentano ognuno come un lemma, un saggio breve su passo o argomento, formando infine una piccola enciclopedia leopardiana. Non v’è riga che non valga l’impegno della lettura: il commento è costruito e spostato dal punto di vista del saggio in questione, s’intende; tuttavia l’intero opera di Leopardi è presente. E in effetti l’intreccio fitto sta in primo luogo nei fili di connessione del testo con gli altri testi leopardiani, dei quali molti erano scritti e pubblicati all’epoca, mentre lo Zibaldone (da anni) e le Operette morali (proprio dal 1824, sembra) erano in gestazione. Ma non solo: si può affermare che tutto il contesto culturale che era nella mente dell’autore all’epoca è esaminato con cura, e si guarda anche tutta la storia di Leopardi dopo Leopardi.
Sarebbe impossibile, ai fini d’ una breve presentazione, dare qui una pallida idea della ricchezza degli argomenti. Ma spero almeno di riuscire a far intendere l’importanza del saggio, ponendo all’inizio una domanda, non proprio una delle tante: gli Italiani di Leopardi possono ancora oggi far testo per discussioni, a distanza di buoni duecento anni (eh sì!)? Si tratta di cosa che ancora oggi può essere considerata? Ci ha pensato Guarracino a rispondere nella sua Introduzione (a sua volta corredata di un consistente apparato critico), alle pp. 56 sgg: dove si documenta che, a partire dal ‘900 fino quasi a oggi, o meglio fino al 2011, uomini di spicco come Franco Cordero (solo l’ultimo dei tanti) hanno considerato il saggio leopardiano come punto di riferimento in gran parte valido: esso fa testo, se si vuol condurre una discussione seria e l’analisi in modo spassionato e veridico, senza concessioni di campanile.
Dunque chi legge sta apprendendo qualcosa che può ancora essere un punto di partenza, starà poi al suo spirito critico e alla sua competenza, alla capacità di discernimento, decidere su ciò che di volta in volta legge – non serve essere uno studioso della politica e dell’antropologia filosofica, altrimenti dovremmo sostenere che in materia civile solo gli specialisti possono dirne.
Difatti oggi tra l’altro è cambiato qualcosa, per non dire che due aspetti: che l’Italia, bene o male, è stata unita (il che e il modo anche si contesta da più parti, ma è nei fatti); inoltre all’epoca Leopardi, come tutti, considerava Italiani solo quella minoranza che potevano consentirsi vita agiata e tempo libero, e così potevano contare qualcosa, coltivare opinioni di qualche importanza, agire in modo influente come società intima o stretta nel senso che si dirà; gli altri non erano in questione (si capisce: si veda, nella storia d’Italia a partire dall’unità, la vicenda lunga del suffragio elettorale universale – esteso da pochi ceti a tutti, solo a metà Novecento).
Dunque, come qui si discute il tema?
Occorre tener presente che abbiamo a che fare ancora e sempre con Leopardi, visto da più parti autorevoli come un autore del nichilismo moderno.
Sappiamo, da tutto il corso del suo pensiero in movimento, che egli mostra un atteggiamento ambivalente rispetto all’Illuminismo del tempo: esso ha il merito di avere mostrato la verità, per esempio rispetto alla barbarie del Medioevo (qui la sensibilità romantica di Leopardi si arresta); ma ha fatto strage delle illusioni – perché di fronte alla verità della vita, alla morte e al dolore, al niente, quel che nel Novecento si è chiamato situazioni-limite e cifre dell’esistenza, simboli della trascendenza – la grandezza degli antichi ideali, come l’ambizione della gloria, quel che p.e. la dimensione monumentale della storia, quella delle virtù romane repubblicane alla Plutarco ci consegna – ha rivelato il fondo del suo nulla. Grandezza del nulla è nichilismo: dio non è, o non si mostra – le cose sono niente.
Grazie all’Illuminismo, dice Leopardi, nella nostra epoca, tali virtù degli antichi, ma anche in altro modo la grandezza del Rinascimento, potenti nel cementare una società, vengono viste nella loro intrinseca nullità, non possono rivivere e comunque non sono: “Parlando … chiaramente, la morale propriamente è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora,… e non se ne vede il modo” (p. 127).
Ma il mero esserci al mondo, alla maniera delle cose, non è da uomini, l’uomo agisce e cerca sempre di vestire le cose di un senso, perché l’esistenza ne abbia. E le società degli uomini possono essere più o meno positive – si pensi al vero amor, all’aiuto vicendevole appena invocato nella Ginestra – qualcosa, perché di una società si possa seriamente parlare, deve stare a fondamento e collante di una buona convivenza degli uomini: nonostante il crollo delle illusioni, “i costumi possono in qualche guisa mantenersi e sola la civiltà può farlo ed essere instrumento a questo effetto, quando ella sia in un alto grado” (ivi).
Non mi pare di vedere contraddizioni, nelle grandi linee del pensiero di Leopardi. Se la vita è senza speranza, non resta che rendere l’esistenza degna, che abbia senso, e far fronte al nulla con dignità, nella vita individuale ma anche in quella sociale.
Almeno, l’ambizione dell’uomo nella società deve poter aspirare all’onore, che è la considerazione, la stima dei suoi pari nei suoi confronti e dei pari tra di loro. Fermo restando che il sentimento dell’onore e della considerazione altrui è anch’esso nient’altro che polvere: difatti , “Qual cosa è più frivola in sé che il far conto di una buona azione né più né manco di un buon motto o di un bell’abito (…) ma bisogna pur confessare che… lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria” (p. 97), per cui in Francia, Inghilterra e Germania, le uniche nazioni in cui Leopardi vede al tempo una coesione nel senso auspicato, il meno peggiore che sia possibile, “la società stessa producendo il buon tuono (cioè il “buon tono” delle relazioni che vi s’intrattengono, n.d.r.) produce la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati… e quindi è causa immediata della conservazione di sé medesima” (ivi – e, in nota: “gli uomini politi delle dette nazioni si astengono dal fare il male e fanno il bene, non mossi dal dovere, ma dall’onore”).
Perché Leopardi vede nelle nazioni dell’Europa del Nord i presupposti d’una società che, con tutte le mancanze che gli vi ravvisa, sia almeno accettabile?
Lo si trova in tutto il saggio – i Francesi conservano almeno qualche retaggio della rovinata grandezza che li ha portati agli eventi tra XVIII e XIX secolo dal Re Sole alle guerre napoleoniche; su Inglesi e Tedeschi e sulla fioritura spirituale di questi ultimi nell’Ottocento, che Leopardi puntualmente registra al punto in cui visse, ragioni antropologiche, culturali, climatiche convengono a far sì che “… le nazioni settentrionali, e massime il popolo, sono molto più paragonabili e simili oggidì alle antiche che non sono le nazioni, e massime il popolo, del mezzogiorno” (p. 132); nonostante quel che il senso comune può credere, si legge “non dubito di attribuire in gran parte la decisa e visibile superiorità presente delle nazioni settentrionali sulle meridionali, sì in politica, sì in letteratura, sì in ogni cosa, alla superiorità della loro immaginazione… Sembra che il tempo del settentrione sia venuto” (pp. 132-3) anche perché “…tutte le istorie, dimostrano che i popoli superiori agli altri nelle grandi illusioni, lo sono sempre eziandio nella realtà delle cose” (p. 133 n.); per questo, si veda in particolare l’ultima parte del saggio).
Gli Italiani, per quanto siano filosofi come e più degli altri, sono per un verso come tutti, in base a quanto detto del secolo dei Lumi, cioè privi “d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società” (p. 98) cosa che invece ebbero gli antichi, ma, a differenza delle tre nazioni menzionate, gli Italiani
mancano anche di “quel genere di stretta società definito di sopra” (ivi) ovvero di quel “buon tono” dato dal sentimento dell’onore. Essi “passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane” (p. 99), nient’altro: e “ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé” (p. 100). In Italia, in questa spassionata visione manca la società, e “non v’ha onore dove non v’ha società stretta”. Ne segue che “niuna cosa… è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinion pubblica” (p. 101); anzi in questo gli Italiani sono ultrafilosofi, che per essi “non hanno luogo le illusioni” (p. 102 ma cfr. anche p. 108 – p. e. fare cose ritenute importanti, come progettare l’avvenire, impegnarsi per il futuro, il che per un verso darebbe tono e coesione a una società, ma sarebbe pur sempre illudersi rispetto al senso della vita, beninteso).
All’opposto,“la perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose… in una società stretta, inganna in qualche guisa il pensiero, e mantiene come che sia e per quanto è possibile l’illusione dell’esistenza” (pp. 104-5). Dal fatto che “gl’italiani di mondo, privi come sono di società, sentono … più degli stranieri, la vanità reale delle cose e della vita”; “conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini” (p. 108; 109), da questa specie di amaro realismo, “nasce ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare” (p. 109). Ecco: “la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità” da cui scaturiscono “indifferenza profonda”, “pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni” (p. 109); non conviene mostrare in pubblico discrezione e riserbo, e la cosa più nociva quando si è con gli altri risulta a ognuno “l’esser dilicato e sensibile sul proprio conto” (p. 113).
Il cinismo reciproco, esercizio in cui più si distingue “fra noi l’uomo di più mondo” (p. 111), per cui chi non rispetta gli altri non può aspettarsi d’essere rispettato (cfr. p. 112-13), si manifesta nel non prendere sul serio alcunché, nel ridere “d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo” (p. 110). Una società stretta come le altre sopra menzionate – francese, inglese, tedesca – non potrebbe, “non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo” (ivi); là queste cose non avvengono, o non in tal misura, ma qui in Italia la conversazione consiste nel ridere d’altri e di tutto e “il più del riso è sopra gli uomini e i presenti”, secondo una minuziosa, aberrante fenomenologia che Leopardi va a descrivere e che non gli sarà mancato di osservare soprattutto nell’esperienza a quel tempo già da lui maturata, ad esempio nel suo viaggio romano. Peraltro, il fenomeno dei cattivi costumi, a cui dà luogo la mancanza di quelli buoni, tutt’al più sostituiti da “usanze e abitudini”, è più evidente nelle piccole città di provincia, mentre si attenua “nelle capitali e città grandi d’Italia” (p. 125) essendovi in quelle “un poco più di società, quindi un poco più di cura dell’opinione pubblica… un poco più di studio e spirito di onore, e gelosia della propria fama… un poco più di costume, e quindi di buono o men cattivo costume” (cfr. p. 123: si fa per “assuefazione” quel poco che resta di degno, che andrebbe fatto invece per spirito “nazionale o provinciale”).
Di questi tempi, quando l’istruzione dovrebbe essere generalizzata, con un benessere più diffuso e i mass media, dovrebbero essere molti di più gli Italiani in grado di formarsi un’opinione (ne ascoltiamo di tutte le specie, per quanto molte siano insensate) e di condursi civilmente senza perciò essere intellettuali o politici. Ma avviene questo? Ciò che è certo è che, come mostra Guarracino, lo scritto di Leopardi lascia una traccia, qualcosa che tuttora offre materia di discussione..
Se l’esistenza, nonostante il niente, va resa significativa, egli seppe come farlo in una sua propria, unica maniera.