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22 Marzo

Dimenticare se stessi? Sul concetto di compassione.

Dimenticare se stessi? Sul concetto di compassione

 

                                                                                     Preme il destino invitto e la ferrata
                                                                                     necessitá gl’infermi
                                                                                     schiavi di morte

                                                                                          G. Leopardi, Bruto minore, 31-33

 

Considerando la commozione e il pianto dovuti a sofferenze altrui, si può vederli come un immedesimarsi nell’altro e quindi trascendendo il sé individuale?[1] Sembra che dimenticare se stessi sia parte del concetto di compassione.

Non potrei svolgere qui una ricerca (anche) filologica sull’origine del concetto di compassione, perché questo implicherebbe conoscenze che non ho della lingua dei testi originari che, pare, stiano all’origine del discorso.

Invece ho considerato il concetto di compassione come già argomentato, trattato da Schopenhauer e Leopardi[2], oltre che nell'Ethica di Spinoza.

Ringrazio il Prof. Vincenzo Guarracino per gli spunti e i suggerimenti che ho trovato nei suoi scritti, e in parte mi ha egli stesso indicato.

 

Sembrerebbe che nello Zibaldone, allorché si parla dell’episodio del pianto di Achille, si neghi che la compassione come immedesimarsi negli altri: ognuno, infine, piange perché, vedendo quello altrui, vien preso dal proprio stesso dolore.

Anche se questo può avvenire, come si vedrà subito, la conclusione non può essere definitiva ma riguarda tutt’al più una parte del pensiero di Leopardi, perché nella Ginestra appaiono momenti un po’ diversi.

Nello Zibaldone dunque l’argomento è svolto da un punto di vista antropologico e psicologico: “Udrai dire sovente che per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi a chi abbia provato le stesse sventure, o sia stato nella stessa tua condizione”[3]. Certo, può darsi, “Se intendono del passato, andrà bene”, ovvero la condizione per poter com-patire un altro in comune sentire e solidarietà, in generale, è che le mie emozioni siano state elaborate.   Quindi, non si nega in assoluto che ciò possa avvenire.

Se ciò non è avvenuto, perché forse mi trovo a vivere adesso e non in passato fortissime emozioni della stessa natura di quelle che mi vengono partecipate da altri, è impossibile che possa com-patire:

non c'è uomo da cui tu possa sperar meno che da chi si ritrova presentemente nella stessa calamità o nelle stesse circostanze tue. L'interesse ch'egli prova per sé, soffoca tutto quello che potrebbe ispirargli il caso tuo (…) Lo vedrai commosso, crederai che senta pietà di te, ma la sente di se stesso unicamente[4].

Quando si è a full immersion nel mare della propria emozione, vien preso tutto il campo della mente; dunque io avverto l’esperienza dell’altro solo nella misura in cui possa riconoscervi in parte o in tutto la mia; oppure non sono affatto in grado di parteciparvi. Nella psicologia leopardiana l’egoismo è qui movente fondante:

Sarà sempre impossibile attaccar l'egoismo così di fronte, quando anche da lato è così difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di azione non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato della vita domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di troncarla, da un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno e colla stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto occupato ed afflitto da una malattia simile alla tua ec. ec.[5].

Dettagliate osservazioni di esperienza, quindi preziose, direi. Vien portato ad esempio[6] l’episodio famoso di Achille e Priamo[7]: “Fa al proposito l'esempio d'Achille piangente i suoi mali mentre ha Priamo a' suoi ginocchi”. Ma non ci s’inganni:

Quando Omero, introduce Priamo ai piedi d'Achille, quando ci commuove fino all'anima coll'amaro spettacolo di tanta grandezza ridotta a tanta miseria, quando par che impieghi ogni artifizio, che accumuli ogni circostanza, propria a destarci la compassione più viva, e nel tempo stesso ci rappresenta Achille, il protagonista del suo poema, il modello della virtù eroica da lui concepita, così difficile, così tardo a lasciarsi piegare, piangente sopra il capo di Priamo, non già le sventure di Priamo, ma le sue proprie e il suo vecchio padre, e il suo Patroclo, della cui morte esso Priamo era venuto a chiedergli in certo modo il perdono…[8]

È, certo, presente il motivo della pietà (così tradotto dal greco): ma tanto Achille che Priamo stanno piangendo per il proprio dolore, non per quello dell’altro.

Dicendo diversamente, la scena risulta pregna di una corrente sola, una serie di motivi che avviluppano i singoli protagonisti – ad es. Achille può identificare nell’anziano Priamo il padre lontano: e ciò porta conseguenze in agire, come il cenare insieme o l’offrire sonno e protezione al re supplice, da parte di Achille. Questa presenza del sentire proprio e pur comune vince per il momento l’ostilità che divide, ma il contesto mostra come quest’ultima sia presente e compaia di continuo. Omero, precisa Leopardi, “introduce quell’episodio compassionevole in grazia del sommo interesse e del gran contrasto di affetti a cui dà luogo” e peraltro egli attentamente “guarda che Achille non offenda in alcuna parte le leggi dell'eroismo; non si mostri leggero, flessibile, dappoco perdonando; non sia ripreso d'essere stato umano co' nemici della sua nazione e suoi”.

Sono così salve tutte le istanze: quella della compassione, essendo tale un senso (non il solo) dell’episodio in generale; quella della virtù eroica quale si dové concepire al tempo, che escludeva la pietà per il nemico, se compassione s’intende, nel caso, come pietà; il riguardo alla personalità feroce di Achille, quale Omero e la sua epoca la concepirono; quella dell’antropo-psicologia leopardiana.

Tuttavia, se qui il tema della compassione viene considerato assieme a quello della virtù eroica, non è detto che di solito esso vi si presenti associato. Allora cosa si vede, invece?

La ginestra o il fiore del deserto viene composta da Leopardi nella primavera del 1836[9],

A partire dal v. 29 il carattere della compassione (qui detta il commiserare) viene addirittura attribuito anche alla ginestra: fiorendo sulle vestigia delle stragi e del dolore causati dalla natura, dal vulcano, dove “fur città famose”,

... Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo    

di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola.
[10]

E gli umani? La soluzione al peggio che la maligna natura ci destina non può essere se non l’azione solidale degli uomini, finalmente maturi e giunti all’età adulta. Nobil natura è quella  

… che grande e forte          

mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
fraterne, ancor più gravi                            

d'ogni altro danno accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa            
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia
tutti fra se confederati estima                            

gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune
 …[11]

La terza strofa del poemetto oppone la stupidità di chi si rifiuta di constatare la miseria umana alla grandezza di chi osa guardare in faccia questa aspetto e attribuirne la responsabilità alla natura, contro la quale gli uomini sono chiamati a far fronte comune e a stringere legami di solidarietà sociale, in “social catena”:

                                              e quell'orror che primo      

                                               contro l'empia natura
                                              strinse i mortali in social catena,
                                              fia ricondotto in parte                                

                                              da verace saper, l'onesto e il retto
                                             conversar cittadino…
[12]

Così viene articolato il concetto di compassione nella fase matura del pensiero poetante di Leopardi: esso consiste non solo nell’ immedesimarsi nell’altro sentendo che la sua sventura è la mia stessa, per quel che si vede dalla ferocia della natura nemica; ma anche nel fare qualcosa per alleviare la comune disgrazia.

La stessa ginestra qui menzionata non solo pare in grado di compassionare gli uomini, ma anche è suscettibile d’essere compassionata: tutto il vivente subisce lo stesso destino.

E tu, lenta ginestra,

… Anche tu presto alla crudel possanza

soccomberai del sotterraneo foco, …

E piegherai

sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente…[13]

 

Ora, rispetto a Leopardi, cosa cambia in Schopenhauer? [14]

Parlo soprattutto del suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, a partire dall’inizio del XIX secolo.

Il ruolo del concetto di compassione, nell’etica (ovvero per la precisione al grado dell’ascesi) di Schopenhauer come nella tradizione del pensiero indiano, appare centrale. Ma come intende egli la compassione, anche – verosimilmente – in riferimento alla propria conoscenza di quei testi venerabili?

Stando a quel che sappiamo e come si è detto, intanto, il filosofo tedesco sente Leopardi sulla sua stessa linea.

Così si esprime Schopenhauer: egli chiama (così almeno suona in traduzione) pietà il sentimento della identificazione d’un uomo a un altro che soffre. Lo argomenta a partire nell’ambito della discussione sulla giustizia,

“ …la giustizia volontaria ha la sua più profonda origine in un certo grado di superamento del principii individuationis, mentre in questo principio riman sempre del tutto prigioniero l’uomo ingiusto”[15] che sempre agisce in vista del proprio interesse come interesse della sua singolarità, del singolo individuo che egli è. L’uomo giusto viene contrapposto all’ingiusto, chiuso nella sua singolarità, e ciò che lo distingue è proprio la compassione, che muove a giustizia, quindi a sentire gli altri come se stessi e ad aiutarli.

A partire dall’ambito della giustizia come “semplice negazione del malvagio” l’uomo giusto “penetra al di là del principio individuationis, dal velo di Maya: considera l’essenza, ch’è fuori di lui, pari, fino a questo segno, alla propria: non fa ingiuria”[16] e il “grado supremo di tale giustizia dell’animo… già s’accoppia con la bontà vera e propria”[17] : ovvero “a quel generoso… Il principium individuationis… non lo tiene più così stretto; invece il dolore, ch’ei vede in altri, lo tocca quasi come il suo proprio”[18]: appunto perché “da lui è svanita l’illusione del principii individuationis[19].

Schopenhauer ammette senz’altro che ci si possa sentire nei panni dell’altro che soffre. Ma in che senso? Nel senso dell’amore, anzitutto. Come si deve intendere qui l’amore? Egli aggiunge che “deve ancora venir formulato e chiarito un paradosso…: «Ogni amore (…) è compassione»”[20]:

dall’oltrepassamento del principii individuationis (viene), nel grado minore, la giustizia, e nel maggiore la bontà vera e propria dell’anima… come puro, ossia disinteressato amore per gli altri (e…) in tal caso il carattere asceso all’altissima bontà e alla perfetta generosità sacrifica in tutto il suo bene al ben dei più (… al punto che, essendo in quella condizione,) di buon animo (si) affront(a) dolore e morte per l’affermazione di ciò che all’umantà intera giova[21].

Se “trovammo essere inerente alla vita… il dolore, come volontà”, ciò

che dunque bontà, amore e nobiltà posson fare per gli altri (…) quel che per conseguenza può muoverle alle buone azioni e opere dell’amore, è sempre soltanto la conoscenza dell’altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il dolore proprio, e messo al pari di questo. Ma da ciò risulta che il puro amore (αγαπη, caritas) è, per sua natura, compassione (...) ogni vero e puro amore compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo. Egoismo è l’ερως ; compassione è l’ αγαπη."[22]

Sembra ora che il piangere in generale venga spiegato in modo somigliante a quello di Leopardi: secondo me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì sempre per il riprodursi di esso nella riflessione (… ovvero, n. d. r.) dal dolore provato (…) si passa a una pura rappresentazione di esso, e si trova allora compassionevole il proprio stato, che, se fosse altri a soffrire (… l’aiuteremmo con tutta pietà e amore (…)"[23].

Ma è da notare che la somiglianza finisce qui perché le conclusioni sono diverse da quelle di Leopardi, almeno se si consideri l’episodio dell’Iliade citato:

"Il pianto è dunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la capacità dell’amore e della compassione, e la fantasia (e…) si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d’amore, ossia di pietà verso altri"[24].

Se ci si sofferma, nel confrontarvi questi passi di Schopenhauer, sulla spiegazione che offre Leopardi del passo del pianto di Achille (…), può solo sembrare che entrambi affermino lo stesso: che cioè, per spiegare il pianto, bisogna supporre che si pianga pensando al proprio dolore, quindi a se stessi.

Non è la conclusione di Schopenhauer: questi dice che, proprio perché si piange per pietà di se stessi, si è capaci di amore e di compassione.

Leopardi rispetto all’episodio dell’Iliade crede invece di poter mostrare che Achille piange per egoismo.

Nessuno dei due infine, in realtà, se mi riferisco ai passaggi sulla solidarietà umana nella Ginestra, sostiene che l’egoismo sia alla base della nostra vita.

Schopenhauer infatti, in forza della sua etica e del suo pensiero, sostiene che un grado molto elevato del sentire e dell’agire è quello della compassione, come si vede, che sorge sullo sfondo del nulla.

Leopardi, se ci si limita ai passi citati da Zibaldone, sembra poter porre a fondamento del pianto l’egoismo e non la compassione e la pietà. Schopenhauer invece afferma che occorre supporre, come condizione del pianto, amore e compassione degli altri, per cui si avverte quel che avviene ad altri come avvenisse a me stesso, senza di che il sentire e il reagire di pianto non sarebbe possibile.

Se tuttavia si va ai versi della Ginestra, pare che Leopardi concluda proprio come Schopenhauer intorno alla capacità di provare amore per gli altri.

E Spinoza, questo maestro che ha pensato soprattutto in dimensione onto-teologica, etica e politica, ma come Schopenhauer e Leopardi ha strettamente connesso l’etica all’ontologia, al pensiero del Principio e di Dio?

È che qui nel pensiero di Spinoza il Principio cambia: si tratta dell’ordine geometrico del dio-natura, ma la natura nel caso è retta dalle leggi della cosmologia scientifica dell’epoca.

Spinoza, con uno sguardo al pensiero Stoico, conduce la sua analisi rigorosa delle passioni e degli affetti,   ma   non   certo   perché   questi vadano   espunti   dalla   vita   dell’anima   –   come,   se   intendo   bene, pretesero gli Stoici – ma perché egli sa che un pensiero può pretendere di affermarsi soltanto se si fa affetto dominante – affetto positivo sull’esistenza, più forte, al momento opportuno, di quello sbagliato e dannoso.

Così i filosofi: sembra che in Schopenhauer e Spinoza, a prescindere dalla persuasività delle loro conclusioni, tutto dipenda dalla struttura dell’ argomentare secondo i propri presupposti, in spirito di sistema.

   Spinoza dal suo canto presenta una complessità crescente in progresso di lettura, che spesso non si svela a un primo sguardo. Ne propongo solo un esempio.

Sarebbe limitante, come dicevo, intendere l’abissale Spinoza solo nel senso che, proprio come l’algido dio, l’uomo debba fare a meno dei sentimenti; alcuni di questi anzi si rivelano utili alla sua conservazione e all’accrescimento della sua potenza; sebbene lo stesso Spinoza dica che l’uomo che vive secondo ragione si sforza, per quanto può, di non essere toccato dalla compassione, poiché sa, in stato della conoscenza adeguata, che tutto deriva dalla necessità della divina natura[25] .

La compassione (commiseratio, nel testo originale in latino; commiserazione in trad.italiana) è una passione ma triste, quindi forma di conoscenza inadeguata. Il ragionamento di Spinoza in queste pagine è assai più articolato e qui, per brevità, non lo discuto come sarebbe opportuno. Egli argomenta tra l’altro: “colui che non è mosso né dalla ragione né dalla Commiserazione ad essere di aiuto agli altri, giustamente è detto inumano”[26]. Le passioni come la commiserazione rientrano nella definizione di ciò che è umano; e pur quando mossi da ragione e non da commiserazione, lo si fa solo per quanto si può (cfr. ivi).                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

Spinoza sa che le passioni si vincono solo con le passioni, ovvero, per la precisione, se assumono la forma di un positivo affetto: gli uomini non possono farne a meno – “La conoscenza vera del bene e del male, non può, in quanto vera, impedire alcun affetto, ma solo in quanto è considerata come un affetto”[27]: perché, ‘era letto più sopra, “Un affetto non può essere ostacolato né tolto se non da un affetto contrario e più forte dell’affetto da ostacolare”[28]in quanto è affetto, se è più forte dell’affetto da impedire, soltanto allora potrà impedire l’affetto”[29]. Si aggiunga che Spinoza vede la misericordia come forma di amore, dunque con una sua positività, se si consideri che la contrappone all’invidia che invece è decisamente cattiva.[30]                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

Se nel Mondo ho l’antropologia filosofica e quindi l’etica di Schopenhauer, dipendente dalla Wille, e nell’Etica quella di Spinoza, in funzione della sua onto-teologia, quella di Leopardi è ricostruibile con maggior difficoltà, essendo il suo pensiero esposto in frammenti e versi e quindi non sistematicamente. Non per questo il pensiero di Leopardi risulta meno considerevole.

Ho iniziato con i passi dello Zibaldone, dove in primo luogo sembra che Omero intenda rappresentare in Achille la figura dell’eroe guerriero, che non può avere pietà del nemico. Leopardi allora non farebbe che riportare l’intenzione di Omero.

Nel grande poeta e filosofo, come vide De Sanctis nel suo saggio su Leopardi e Schopenhauer, nonostante la polemica frequente con i nemici, non mancano accenti di compassione verso l’umanità e gli stessi animali: “Oimé quanto somiglia/Al tuo costume il mio!”[31] si legge, riferito al passero solitario; ma anche “Godi, fanciullo mio; stato soave,/Stagion lieta è codesta./Altro dirti non vo’…” [32], ne Il Sabato del villaggio. Sono queste parole solidali dette a un uccello, o a un altro uomo, che è giovane e pertanto inconsapevole, non certo nella condizione di Leopardi. Eppure egli è compassionevole e pure il fiore della ginestra è oggetto di compassione.

Sembra evidente: il pensiero di Leopardi nel merito della natura umana e della compassione è articolato diversamente da quello di Schopenhauer e di Spinoza, nel senso che chi legge deve ricostruire da aforismi e fasi di pensiero, mentre quello dei filosofi ha il pregio di essere presentato in modo sistematico, ordinato. Ma infine Leopardi davvero non appare molto distante dalle conclusioni di Schopenhauer, fatti salvi i differenti fondamenti ontologici – per Leopardi in ultima analisi la Materia, per Schopenhauer la Volontà – mentre la questione del raffronto con Spinoza è più complessa.

Il concetto di compassione come descritto non mi sembra coincidere con quello cristiano di carità, sebbene possa toccarlo per alcuni aspetti. Ma trovare questo implicherebbe una distinta ricerca. Comunque non si tratta di un atteggiamento solo contemplativo: esso implica anche che si possa agire; come pure, che si debba decidere di non far nulla. La ragione ad esempio, secondo Spinoza, muove ad aiutare gli altri nelle forme giuste; la commiserazione, avendo a che fare con la tristezza, nei modi errati. Quel che Spinoza intende lo vediamo nell’esperienza di vita ogni giorno, e peraltro ognuno agisce (secondo Spinoza) anche in conseguenza della propria natura. Ragione e compassione rientrano nell’umano, chi non agisse secondo una o l’altra o differenti proporzioni dell’una e dell’altra sarebbe detto (egli dice) inumano.

Sembra che ragione e compassione vengano contrapposte ed è così, in spirito geometrico, ma tanto nell’agire secondo ragione quanto nell’agire commiserando si tratterà di aiutare gli altri. Noi diciamo che chi agisce ragionevolmente per aiutare gli altri lo fa con avvedutezza e forza, per quanto la ragione lo possa; chi agisce per impulso compassionevole lo fa senza ben soppesare i motivi, quindi è più facilmente indotto in errore. In questa accezione spinoziana, esercitare compassione non serve ma significa essere deboli e condiscendenti: “colui che è facilmente toccato dalla commiserazione (ovvero la compassione, n.d.r.), e che si commuove per la miseria o le lacrime altrui, spesso fa cose di cui dopo si pente” [33]. Ve ne sono esempi evidenti nella vita come nella letteratura. Anche per aiutare gli altri occorre essere mossi da ragione, e solo in questo modo si rientra nella sfera del divino, che è amore nella letizia.

Nocera Inferiore, marzo 2023                                                     Carlo Di Legge

 

 

[1] In partenza, confesso di non avere approfondito questo concetto dal punto di vista filologico. In primo luogo non ho gli strumenti di conoscenza del sanscrito o delle altre fonti, per poter andare ai testi. In secondo luogo, trovo dei riferimenti che appaiono piuttosto precisi sul web, non tanto al senso induista della compassione (tuttavia riferito in modo simile a quello presente nei testi di Schopenhauer, qui considerati in traduzione italiana), quanto a quello buddhista che è riportato in modo alquanto dissimile da quello, ma forse perché nell’esposizione si sono privilegiato aspetti diversi: quest’ultimo viene riportato con riferimento ai termini sanscriti d’origine (pinyin: karuṇā tradotto "compassione", "pietà", "misericordia", "empatia" reso in lingua cinese come 悲 e maitrī nel significato di "amore", "benevolenza", "carità", reso in lingua cinese come 慈), dalla composizione dei quali risulterebbe il concetto nel senso buddhista almeno, quale oggi lo pensiamo.

[2] Il saggio di F. De Sanctis Schopenhauer e Leopardi  in forma di dialogo è qui considerato, oltre ai testi che verranno citati. Esso venne   pubblicato per la prima volta nel dicembre 1858 sulla Rivista Contemporanea. Pare che Schopenhauer, letto il saggio di De Sanctis, riconoscesse la somiglianza del pensiero di Leopardi al proprio.

[3] G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, ed. Mondadori, Milano 1972 (1937), 99.

[4] Ivi, p. 89

[5] Ivi, p. 90.

[6] Cfr. G. Leopardi,  Pensieri di varia filosofia e di bella letteraturaVolume I. A cura di Giosuè Carducci. Firenze, Successori Le Monnier, 1898., 2767.

[7] Cfr. Iliade, XXIV.

[8] Cfr. G. Leopardi. Pensieri di varia filosofia e di bella letteraturaVolume I, cit., 2768; cfr. Iliade XXIV, 511-12.

[9] Probabilmente prima del Tramonto della luna. La canzone fu poi stampata postuma nei Canti del 1845: si tratta di una delle ultime opere, e diversi caratteri come la collocazione alla fine della raccolta, le dimensioni straordinarie e le caratteristiche tematiche e formali ne fanno una sorta di testamento lirico-filosofico. Dunque si può pensare che questo sia l’approdo del pensiero di Leopardi nel merito del destino umano e della compassione.

[10] G. Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto , in Canti, ed. Rizzoli, Milano 19865, vv. 32-37

[11] Ivi, vv. 111, 118-135.

[12] Ivi, vv. 147-152.

[13] Ivi, vv. 297-306.

[14] Rilevo che egli ha in qualche modo e attraverso traduzioni intermedie (persiana, latina) importato i testi induisti in Europa, nell’ Ottocento, e dunque può essere inteso, pur con tutte le cautele del caso, come fonte attendibile.

[15] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. Laterza, Bari-Roma 1984 (1914), v. II Libro IV, p. 486.

[16] Ivi, Par 66 p. 485.

[17] Ivi, p. 486.

[18] Ivi, p. 487.

[19] Ivi, p. 489.

[20] Ivi, p. 490.

[21] Ivi, p. 491.

[22] Ivi, pp. 491-2.

[23] Ivi, pp. 492-3.

[24] Ibidem.

[25] Per Ethica di B. Spinoza mi servo qui della versione a cura di G. Durante (trad.), G. Gentile e G. Badetti, Etica, ed. Bompiani, Milano 2014 5.

[26] Ivi, IV, prop. L.

[27] Ivi, IV, cit., prop. XIV.

[28] Ivi, IV, cit., prop. VII.

[29] Ivi, IV, cit., prop. XIV.

[30] Cfr. Ivi, IV, 50.

[31] G. Leopardi, Il passero solitario in Canti, cit., vv. 17-18.

[32] G. Leopardi, Il sabato del villaggio, in Canti, cit., vv. 48-50.

[33] B. Spinoza, cit., prop. L schol.

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